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Comunicati e articoli stampa in lingua inglese in ambito internazionale.
L’importanza della gestione della terminologia e della traduzione.

 
 

Intervista a Rodolfo Calò, capo servizio presso l’ufficio centrale dell’ANSA

 
     
  di Antonella Distante, direttore della rivista  
     
     
 

Nel corso del modulo di traduzione giornalistica, da me tenuto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea specialistica in Traduzione, della Sapienza, ho proposto ai miei studenti del materiale proveniente da articoli di stampa anglofona su tematiche concernenti le relazioni internazionali, la sicurezza e la difesa. L’analisi approfondita dei comunicati e degli articoli di stampa in merito alle questioni di politica internazionale ritengo che consenta di acquisire una visione più integrata e completa del panorama geopolitico internazionale utile ai fini della traduzione.
In tale ottica, ho pensato che un seminario di approfondimento su queste tematiche, attraverso una testimonianza di chi concretamente ha vissuto in prima persona le problematiche relative alla traslazione dei concetti nel campo della comunicazione internazionale, fosse opportuno per consentire ai discenti di arricchire il proprio bagaglio. Ho così ottenuto la cortese disponibilità del Dott. Rodolfo Calò, dell’agenzia Ansa, a tenere un seminario in facoltà sulla rilevanza della gestione della terminologia e della traduzione in questo campo. In qualità di esperto del settore, Calò ha fornito interessanti spunti di riflessione prendendo in esame testi della comunicazione a livello internazionale quali comunicati stampa della Nato, dell’Unione Europea, i dispacci della Reuters e passi scelti da articoli dell’Herald Tribune. Un viaggio straordinario nei meandri delle notizie di rilievo mondiale, un percorso stimolante per studiare dall’interno e “dietro le quinte” il prodursi delle notizie. Una sorta di esplorazione a ritroso per esaminare da vicino la “gestazione” della notizia in campi delicati che ineriscono gli equilibri planetari. Il peso specifico che una interpretazione approssimativa può comportare e l’utilizzo di formule specifiche è un’esigenza davvero fondamentale per chi si accinge a tradurre in italiano un testo inglese concernente questo settore. Di qui l’importanza di coniugare la competenza nel campo della lingua inglese e aspetti più specificatamente legati all’esperienza professionale che permettono un’integrazione atta a favorire la comprensione e l’interpretazione del testo evitando traduzioni e trasferimenti fuorvianti e pericolosi.
Il Dott. Calò dal 1991 è stato corrispondente, sempre per l'ANSA, da Berlino, Bonn, Milano e Bruxelles, e ha vissuto le tensioni sociali della ex-Germania dell’est nel dopo-Muro, la nascita dell'euro e della new economy. Altri eventi fondamentali di cui ha testimoniato l’evolversi sono: l'allargamento dell'Unione Europea, della Nato con i relativi attriti fra Europa e Usa soprattutto fra il 2002 e il 2005, quando ha seguito l'attività dell'Alleanza atlantica anche come inviato in Afghanistan, Turchia e Kosovo. Questa lunga e articolata esperienza professionale nel campo internazionale ha permesso di proporre una chiave di lettura davvero originale del mondo della comunicazione internazionale.
Desidero ringraziarlo per avermi concesso l’intervista che segue e soprattutto per aver accettato il mio invito a tenere il seminario alla Sapienza, consentendo così agli studenti del modulo di traduzione giornalistica di avvicinarsi concretamente al mondo della comunicazione internazionale e immergersi nel vivo delle problematiche di questo settore. Le testimonianze della propria esperienza, riportate da chi quotidianamente lavora in questo campo è linfa vitale per chi studia questo settore e fornisce loro un valore aggiunto che supera oltremodo la teoria. Auspico che in futuro vengano reiterati interventi come quello del Dott. Calò in Ateneo, utili per far conoscere da vicino agli studenti il mondo del lavoro che li attende.

 
     
 

Quanto è importante l’indicazione e la traduzione delle fonti per una corretta trasposizione dei concetti dall’inglese all’italiano?

 
     
 

Molto importante, direi: qualitativamente fondamentale. Nel mondo di Internet, dell’informazione multicanale praticamente illimitata, la qualità della notizia è essenziale, e in questo caso la “qualità” è quella “veridicità” che operatori meno seri e affidabili possono trascurare. Senza addentrarci in riflessioni filosofiche, si può dire che in questo ambito la “veridicità” è l’aderenza a ciò che dicono o scrivono le cosiddette “fonti”: quelle che, pur coi loro limiti di prospettiva o partigianeria, sono più vicine al “fatto”, a quello che “fa” la notizia, a dove essa “sgorga”.

 
     
 

Ci faccia un esempio …

 
     
 

Prendiamo un “vertice” o uno qualsiasi di quei consessi internazionali in cui c’è tanta richiesta di buone traduzioni sia per intendersi all’interno, sia per farsi capire all’esterno, dall’opinione pubblica. Quando i “decision makers” sono chiusi in una stanza, appunto a prendere decisioni, passano ore e ore in cui le scelte non sono del tutto assunte ma sono già impostate. All’interno della sala è quasi tutto chiaro e si discute dei dettagli; all’esterno invece, nel mondo, regna l’incertezza: i capi di stato approveranno questo o quell’altro? Decideranno questa o quella svolta? È in quei momenti, ad esempio, che l’aderenza alle fonti e l’affidabilità dei media è messa alla prova, e fa la differenza. Ci può essere il media che, pur di fare “scoop”, raccoglie una cosiddetta “voce”, un’informazione non controllata né verificata: essa può sembrare “verisimile” e magari alla fine coincide pure con quello che realmente avviene, ma rappresenta un rischio, ossia che sia soltanto una “voce” e non un “fatto” riferito da una “fonte” attendibile.

 
   
 

Ancora più concretamente?

 
     
 

Ossia può accadere che questo ‘media’, che è poi un giornalista, raccolga un’ipotesi formulata da un collega, magari un esperto, uno che in genere è in contatto con la segreteria del ministro e che spesso ha fatto a sua volta vari scoop, e la scriva con una formula vaga del tipo: “a margine del vertice si ipotizza che…”. Nel grande mondo dei media, connotato da un utilizzo praticamente libero del materiale della concorrenza (la cosiddetta “cannibalizzazione”), un secondo operatore evita di sottolineare che “fonti anonime ipotizzano che…” e scrive direttamente “il vertice potrebbe…” o, peggio, “il vertice sta per…”. È allora che avviene il corto circuito: l’utente percepisce il messaggio che “il vertice ha…” fatto qualcosa, mentre invece non è vero.

 
     
 

Quindi, per il traduttore, questo cosa comporta?

 
     
 

Per il traduttore e per il complesso del mondo dell’informazione questo comporta che bisogna sempre attenersi alle fonti e, se possibile, esplicitarle, individuarle bene, renderle riconoscibili, ‘tracciando’ così l’informazione come se fosse una fettina di carne che tutti vorremmo sapere da quale paese viene, cosa veniva dato da mangiare ai bovini nell’allevamento di provenienza, e via dicendo.

 
     
 

Tornando al caso dell’ipotetico vertice?

 
     
 

La procedura corretta è quella di attendere il comunicato finale, sottolineando che si tratta del “final statement”, della “declaration” o di come viene indicato il “communiqué”: quello, e solo quello, rimarrà agli atti, farà fede, sarà vincolante per tutti e quindi importante da conoscere per il cittadino. Tutto il resto rimarranno parole, voci. Ovviamente rilievo e peso avranno anche le parole usate nelle conferenze stampa, o da parte di protagonisti disposti a farsi citare per nome e cognome, magari comparendo davanti a una telecamera, “a margine” dell’incontro stesso. Nella spasmodica ricerca dello scoop, che è poi l'informare “prima” di cosa è realmente avvenuto, si potrà anche ricorrere a fonti più o meno “coperte” come diplomatici e altri addetti ai lavori: in questo caso scatta la certificazione che il giornalista e il suo media danno della “qualità-veridicità” di quello che queste fonti dicono riferendo sull’andamento dei lavori del vertice.

 
     
 

Quali sono i caratteri da tener presente per la traduzione che differenziano i comunicati stampa, i dispacci d’agenzia e gli articoli di stampa?

 
     
 

Anche in questo caso è una questione di fonti, sulle quali mi sono dilungato perchè, appunto, sono così decisive. Il comunicato è di per sé una “fonte” in quanto riproduce fedelmente quello cui un’istituzione seria (se non è seria anche il suo comunicato non ha valore) si sente vincolata e a cui sarà costretta a riferirsi qualora quello che è contenuto nella nota dovesse rivelarsi fallace. Se, ad esempio, la NATO affermasse in un comunicato che nel nord dell’Afghanistan sono morti quattro soldati uccisi dai talebani mentre si tratta di otto capre saltate su una mina qualcuno dovrebbe dimettersi, fors’anche il portavoce. Dato che a Bruxelles, e ne ho contezza diretta, ci sono persone serie che ci tengono al posto e all’onorabilità dell’istituzione che rappresentano, ciò che è contenuto nel comunicato sarà magari scarso al limite della reticenza ma mai intenzionalmente sbagliato. Esso è quindi una fonte “affidabile”, anche se ad esempio interessata a non favorire l’impressione che nel nord dell’Afghanistan la situazione sia pericolosa.

 
     
 

Quindi?

 
     
 
Quindi il press release, il communiqué, si deve presentare per quello che è: un “comunicato”, una “nota” (anche se questo termine può avere una sfumatura di inferiore ufficialità), comunque con un crisma di attendibilità proporzionale a quello della “fonte” che l’ha emesso. Il suo contenuto, insomma, era proprio quello che la NATO, in questo caso, voleva dire, sottolineare, omettere o tralasciare.
 
     
 

Dei dispacci?

 
     
 

I dispacci delle buone agenzie - specchiato esempio per tutti sono le anglofone Reuters e Ap, la francofona France Presse, la tedesca Dpa e la spagnola Efe, per limitarmi a media internazionali senza autocelebrazioni od omissioni ‘italiane’ - sono un po’ come i buoni articoli di giornale: fanno capire chi è che parla e dove sono tratti i dati, perchè è solo quella la garanzia, o almeno l’opportunità, di capire se l’informazione che abbiamo è affidabile o in qualche modo tendenziosa. Scrivere che in Italia d’estate “fa caldo” è un conto; un altro è poter citare la media delle temperature di luglio e agosto degli ultimi anni raccolte da un osservatorio meteorologico e comparate con quelle della Francia e della Libia: ci si accorgerà che in effetti “fa più caldo” che altrove, ma non in ogni caso. In parallelo, un conto è scrivere, smentiti dal premier, che il governo “è in difficoltà” e un altro è riportare la valutazione del capogruppo di maggioranza e quella di un politologo, magari straniero, che abbia osservato gli ultimi sviluppi dell’azione dell’esecutivo.

 
     
 

Quindi quali sono i valori aggiunti di un dispaccio di agenzia da considerare in sede di traduzione?

 
     
 

Quelli che dicevo, ossia il riferimento più o meno costante alle fonti: il famoso “police said” messo alla fine di qualsiasi frase che riporti un fatto di cronaca, ad esempio. In effetti, soprattutto nei primi momenti dopo un fatto, la quasi totalità delle informazioni disponibili dipende dalle primissime indagini delle forze dell’ordine o da testimonianze: persone sul posto, magari soccorritori, anch’essi possibilmente da citare almeno con il nome di battesimo o l'istituzione che rappresentano per responsabilizzarli a riferire quello che effettivamente hanno visto e sentito, o che quantomeno sono convinti di aver percepito nell’emozione del momento. Si presuppone che in un paese libero le forze dell’ordine, sottoposte a loro volta a controlli, riferiscano in maniera fedele e non tendenziosa le informazioni certe a loro disposizione. Le agenzie straniere, Reuters e France Presse in testa, lo sanno e fanno leva su questo: non è raro, infatti, che citino nome e cognome del funzionario dello sperduto posto di polizia che, in quel momento, per tutto il mondo, è la migliore fonte possibile e quindi da esaltare proprio per dare al lettore/ascoltatore, attraverso il traduttore, la migliore informazione possibile.

 
     
 

Nell’ambito del seminario, tra i vari aspetti messi in rilievo, mi ha particolarmente colpito il tema del “said” and “told”. Ci darebbe qualche delucidazione in merito?

 
     
 

È forse l’unico caso in cui il giornalismo anglosassone resta un pochino indietro rispetto a una potenziale maggiore precisione italica, carica quindi un più grande volume informativo. Mi spiego: spesso i media anglosassoni usano il said/told indifferentemente quando la persona parla o scrive o addirittura nel caso di un’istituzione che, non essendo in carne e ossa, si può esprimere solo per iscritto o attraverso un portavoce. Ebbene, in quel caso il traduttore deve supplire a questa carenza e, analizzando il testo nella sua completezza, cercare di rendere con un termine adeguato il “veicolo” con cui la persona/istituzione ha parlato e quindi il “valore” del messaggio. Se nel “lead”, il sintetico incipit del testo che in genere contiene tutti gli elementi salienti delle parti successive, si scrive o dice “Nato said” bisognerebbe capire “come” l’Alleanza atlantica abbia “parlato”: dopo qualche riga forse compare un portavoce? Allora tradurremo effettivamente “ha detto” anche perchè così cominciamo a introdurre il concetto che ci sia in ballo una persona in carne e ossa, la quale effettivamente “dice” perchè “parla” (anche in questo caso non è del tutto vero, in quanto spesso alla Nato i portavoce parlano attraverso comunicati, ma questo è un altro discorso). Se ci accorgiamo, infatti, che si tratta di un comunicato, cercheremo di farlo capire con espressioni meno legate alla verbalità, come ad esempio ha “dichiarato”, “reso noto”, “affermato”, e così via, riservando il “ha detto” quando il testo riporta parole effettivamente pronunciate dal portavoce o dal funzionario di qualsiasi livello sia. Se l’informazione viene messa in evidenza con qualche accorgimento grafico, o collocata in posizione in qualche modo enfatica, si può usare la controversa espressione “ha sottolineato”.

 
     
 

Sono sfumature tanto importanti?

 
     
 
Sì lo sono: un conto è, infatti, citare un comunicato che si presuppone sia stato ampiamente meditato e soppesato riga per riga, parola per parola, e un conto sono frasi pronunciate magari sotto la pressione di domande ‘bombardate’ mentre il portavoce cammina passando da un ufficio all’altro. In quel caso potrebbe sfuggirgli una sfumatura, un accenno, che ha minor valore vincolante rispetto al comunicato. La vulgata più nota sulla caduta del Muro di Berlino vuole che l’annuncio sia stato dato da un portavoce impreparato su una domanda buttata lì in un’affollata conferenza stampa proprio da un giornalista italiano, corrispondente e mio predecessore nell’allora parte est dell’attuale capitale tedesca.
 
     
 

Potrebbe darci alcuni dei riferimenti fondamentali per fare un distinguo tra “fonti coperte” e “fonti scoperte”?

 
     
 

La fonte coperta è quella che non può o non vuole farsi individuare: un politico fuori dalla linea ufficiale del partito, un funzionario senza autorizzazione a parlare con i giornalisti o anche un dipendente di rango ancora inferiore, un cittadino timoroso di ritorsioni. Le figure possono essere le più varie ma la regola è una: quello che dicono deve servire solo per indagare o avviare indagini in una direzione, senza dar loro crisma di veridicità incontrovertibile: non volendo farsi riconoscere potrebbero sbagliare, in qualche caso anche volutamente, per fare disinformazione. In quel caso abbandonano il giornalista in un micidiale dilemma: potrebbe smascherarle, però bruciandosi come ‘traditore’ o quantomeno inaffidabile agli occhi di altre potenziali fonti coperte, oppure dovrebbe sopportare l’onere di dimostrare ciò che ha attribuito a questa fonte rimasta anonima. Compito spesso difficile e che, comunque, lo espone alla domanda insidiosa: ma quanto “attendibile” era questa fonte che non puoi rivelare? Era poi veramente così “informata”?

 
     
 

E le “scoperte”?

 
     
 
È tutto ciò che è facilmente ‘tracciabile’, ‘individuabile’: persone con nome e cognome, comunicati, siti Internet, media con frequenze accessibili più o meno ovunque, portavoce con numeri di telefono disponibili e via elencando.
 
     
 

La qualità e lo stile rendono differenti di molto il giornalismo anglosassone e quello italiano?

 
     
 

Sull’aderenza alle fonti, ho già detto. Lo stile complessivo è un riflesso di questo “approach” orientato alle fonti e quindi ai fatti: è più essenziale e rispettoso del lettore. Il fatto, il senso del messaggio, la sintesi, sono sempre “in alto”, all’inizio, nel “lead”, per essere sicuri che siano colti anche dal fruitore più distratto o con meno disponibilità di tempo. Niente, o almeno pochi e mirati, sono gli incipit evocativi stile “era una notte buia e tempestosa”, usati troppo spesso in Italia solo per dimostrare quanto ‘bravo’ sia il giornalista nello scrivere ma non quindi nel fare il proprio lavoro, che è quello di informare, almeno in un certo ambito del giornalismo. Le parole del giornalismo anglosassone sono pregne di informazione, ‘belle’ perchè dense di messaggio come i vari “80 feet high” e non di vuoti stereotipi che ‘suonano’ ma non ‘dicono’ come “alto”, “importante”, “interessante”, “vasto” e compagnia esaltando.

 
     
 

Quali consigli si sente di dare a un traduttore che si trova a tradurre un testo giornalistico in lingua inglese, sia esso comunicato, dispaccio o articolo?

 
     
 

Come detto: capire chi parla e far intendere, oltre chi esso sia, anche che mezzo stia utilizzando per trasmettere il messaggio, perchè ciò è rilevante per la veridicità -attendibilità - tracciabilità. Per il resto ci sarebbe molto da dire, ma raccomando una cosa: rispettare la posizione enfatica attribuita dallo scrivente all’oggetto del messaggio. Se il lead si apre con “A blast”, l’esplosione va tenuta in apertura, in vista, in posizione appunto “enfatica”, e non va sepolta nemmeno sotto solo due o tre parole, magari riferite alla “last night” più o meno “buia e tempestosa” in cui è la bomba deflagrata.

 
     
 
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