Il fenomeno della Globesity quale vera e propria «global pandemic
disease» [1] è stato ampiamente trattato nell’articolo pubblicato
in precedenza [2]. La stessa delicata tematica, oltre che dal punto di
vista meramente scientifico, offre interessanti spunti di riflessione anche in
ambito linguistico e terminologico.
La diffusione dell’obesità nei vari Paesi, specie per quel
che concerne le fasce di età più giovani, non è facilmente quantificabile: di
conseguenza è oramai costante il binomio obesità-adolescenza [3]. Pur potendosi avvalere di affidabili studi
epidemiologici, l’elaborare comparazioni e ottenere dati oggettivi risulta
complesso in quanto la terminologia e le definizioni utilizzate per definire i
soggetti obesi o in sovrappeso differiscono da Paese a Paese.
Per ovviare a questo problema,
l’International Obesity
Task Force ha messo a punto una serie di valori condivisi che consentono una
più omogenea classificazione del peso corporeo [4]. Oltre a una questione di carattere “tecnico”, se così
possiamo definirla, ovvero l’individuazione dei parametri che consentono di
poter parlare di reali condizioni di obesità, vi è un problema ancor più
profondo e delicato, legato alla sfera dell’emotività e al corretto rapporto con
gli individui affetti da tale condizione.
La domanda che ci si deve porre, specie nel rapporto con i
soggetti più giovani e quindi maggiormente vulnerabili, è perfettamente
riassunta nel titolo di un articolo: “Childhood Obesity: Are We All Speaking the Same
Language?” [5]. Scegliere le parole appropriate per affrontare il problema del sovrappeso
con un bambino o un adolescente non è facile né per i genitori né per gli
operatori sanitari e i medici coinvolti. Molto spesso, in termini linguistici, ci si trova di fronte ad una vera e propria «Towering Babel», ovvero «a
confusing muddle of vastly different conceptual frameworks» [6].
Il sovrappeso e l’obesità sono certamente condizioni
difficili per qualsiasi individuo: tra bambini e adolescenti non rappresentano
solamente un fattore di rischio per la salute, ma talvolta anche, e soprattutto,
un fattore di emarginazione sociale. Anche tra individui di giovanissima età vi
è, seppur a livello inconscio, una chiara correlazione tra sovrappeso e il
concetto, anche se vago, di negatività e di condizione discriminante e
limitante.
“How we start being ‘fattist’ at four: Study
finds children would not think of overweight person as a potential friend” è il titolo di un recente studio
condotto dai ricercatori dell’Università di Leeds su 126 bambini e bambine di
circa 4 anni [7]. Ai bambini
è stata narrata la storia di Alfie, dei suoi amici e del loro gattino Toby. La
storia è stata elaborata in tre differenti versioni che vedono come protagonista
Normal weight Alfie,
Fat Alfie e
Wheelchair Alfie. I piccoli coinvolti hanno chiaramente espresso il desiderio di
diventare amici di Normal Weight Alfie
e di Wheelchair Alfie, senza essere
quindi minimamente influenzati dal concetto di disabilità, ma considerano
Fat Alfie «less likely to win a
race, do well at school, be happy with his looks and get invited to parties» [8].
Sebbene i soggetti coinvolti siano così giovani, il
fattism, ovvero «discrimination on the
basis of weight» [9], è evidente e rappresenta un fenomeno grave, esattamente come tutte le
altre forme di discriminazione. L’approccio discriminatorio e lesivo, anche in
termini verbali, nei confronti delle persone in sovrappeso è altresì noto come
weightism,
weight stigma [10] o weight bias ovvero «judgment and biases
predetermined by weight, body size, lifestyle» [11].
But are “obese” or “overweight” to be considered bad words? [12] Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica
Pediatric Obesity [13], da un’indagine condotta tra genitori di bambini
sovrappeso è emerso che mamme e papà, ovviamente, non gradiscono che i propri
figli vengano definiti fat o chubby e non ammettono l’uso di
espressioni quali large size o
heaviness. Stranamente, però, non
accettano nemmeno i termini obese o
overweight, seppur appartenenti al più
corretto medical jargon. Secondo gli
intervistati, i medici stessi dovrebbero abbandonare il linguaggio tecnico e
optare per definizioni più “morbide”, quali
individual gaining too much weight,
excessive body
weight o
unhealthy body weight, che risultano accettate di buon grado anche dai pazienti.
Sono molteplici le voci autorevoli che hanno invocato l’uso
di un weight-neutral language [14] per
trattare la tematica dell’obesità. È fuor di dubbio che l’uso di espressioni e
di una terminologia troppo dirette possono urtare la sensibilità e ledere
l’autostima, ed è evidente la necessità di diventare maggiormente
culturally sensitive; è tuttavia
altrettanto doveroso inviare un messaggio inequivocabile, consapevoli che
l’obesità rappresenta un serio fattore di rischio da non sottovalutare.
Come affermano gli stessi medici ed esperti, la linea tra «cautious communication and sugar-coating
important truths» [15] è molto sottile. Tutte le linee guida che trattano la
gestione dell’obesità, specie nei bambini e negli adolescenti, sono orientate a
un sensitized vocabulary, ma non si
deve dimenticare che, come definito dall’American Medical Association [16], l’obesità è una malattia [17] vera e propria il cui impatto, in termini di
conseguenze sulla salute, non è diverso da quello rappresento da patologie, e
conseguentemente da parole “ingombranti” quali “cancro” o “sclerosi multipla”,
che non vengono in alcun modo filtrate o “ammorbidite”.
Dunque, quale approccio adottare? Ciò che assolutamente si
deve evitare, per l’obesità come per tutte le altre malattie, è
labelling an individual with his/her disease [18]. Ogni volta che la stampa e i mezzi di
comunicazione in generale, utilizzano il termine ‘obeso/obesa’, come afferma l’Obesity Action Coalition [19], che da anni si batte per la lotta al
weight stigma, “disumanizzano”
l’individuo. È fondamentale essere in grado di percepire la notevole differenza
tra le definizioni “The woman was affected
by obesity” e
“The woman was obese”: nel primo caso l’uso del People-first-language,
definito come «use
of words about people with disabilities that define the person first, not the
disability» [20], minimizza la condizione di individuo obeso enfatizzando il concetto di donna e di essere
umano. L’espressione People-first-language è stata utilizzata per la prima volta nel 1988 negli Stati Uniti [21] e da allora il suo uso è stato applicato a tutte le forme di disabilità.
Associare il concetto di disabilità
a quello di obesità richiederà forse ancora tempo, ma abituarsi a mettere
l’individuo e la sua sensibilità al centro di tutto è certamente un passo
necessario.
Sitografia
http://advances.nutrition.org/
http://www.ama-assn.org/ama
http://www.bbc.co.uk/
http://bedaonline.com/
http://www.capdi.it/
http://www.dailymail.co.uk/home/index.html
http://www.directionservice.org/
http://www.disabilityisnatural.com/explore/people-first-language
http://www.englishfor.it
http://en.wikipedia.org/
http://www.eufic.org/article/it/page/FTARCHIVE/artid/sovrapeso-infanzia-adolescenza-problematiche/
http://www.familytofamilynetwork.org/parent-resources/people-first-language
http://www.hsph.harvard.edu/obesity-prevention-source/obesity-definition/defining-childhood-obesity/
http://www.iaso.org/iotf/mediaiotf/
http://imagazine.ima.it/
http://news.nationalpost.com/2012/01/14/fat-obese-and-other-dirty-words-for-weight-problems/
http://www.obesityaction.org/
http://www.oncentral.org/
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/
http://www.psychologytoday.com/
http://www.sanihelp.it/news/17612/peso-parole-fatto-obesit/1.html
http://www.thefreedictionary.com/
http://www.thelancet.com/
http://theweek.com/
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