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I Vitiating Factors nella contrattualistica in lingua inglese: problemi di traducibilità
 
     
 

di Barbara Arrighetti, traduttrice specializzata in ambito legale e finanziario, socio certificato ATA inglese-italiano

 
     
 
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          Nell’odierna società globalizzata spesso la lingua inglese, e più precisamente l’inglese giuridico, viene scelta come medium terzo dalle parti contraenti. Da questa semplice constatazione scaturisce la riflessione sulla necessità di comprendere quelle peculiarità del diritto anglosassone che trovano espressione in questo linguaggio specialistico per raffrontarle con le particolarità del sistema giuridico italiano e delle sue espressioni linguistiche. Tuttavia, non sempre all'elezione dell’inglese giuridico a lingua franca corrisponde l’assoggettamento del contratto al diritto britannico, sui cui fondiamo le nostre considerazioni, o statunitense e quindi assume rilevanza fondamentale l'identificazione della governing law, della legge che lo disciplina, al fine di evitare svariati problemi di traduzione e traducibilità.
            L’attenzione alla legislazione di riferimento risulta oltremodo utile anche nell’analisi di una caratteristica fondamentale del contratto, ossia quella legata all’annullabilità o addirittura alla nullità del negozio giuridico in presenza dei cosiddetti vitiating factors a cui corrispondono, almeno in prima parte, i vizi della volontà disciplinati dal legislatore italiano all'art. 1427 cod. civ., anche se per dovere di precisione va sottolineato che il diritto britannico nella sua trattazione prescinde dalle indagini sull’intenzione, sulla voluntas delle parti che invece costituisce l’elemento essenziale da cui muove l'ordinamento italiano.
            Ciò che qui interessa non è ovviamente una disamina degli specifici casi di nullità o annullabilità procedendo a una comparazione dei sistemi giuridici, quanto piuttosto un’analisi dell'aspetto linguistico connesso a questa categoria di vizi e il tentativo di fornirne una chiave interpretativa.
            Passando dalla generalità alla specificità, risulta immediatamente evidente la prima discrepanza tra i due sistemi giuridici, fonte di qualche grattacapo, almeno per il traduttore, laddove in Italia la legge attribuisce rilevanza a errore, dolo e violenza, mentre il sistema britannico riconosce mistake, misrepresentation, duress e undue influence ed è proprio quest’ultimo termine a innescare una serie di problematiche per chi si trova a doverne ritrasmettere contenuto e significato in italiano.
            Partendo dall'errore, se pure vi sia una pressoché perfetta corrispondenza di significato tra questo termine e il mistake, qualche difficoltà sorge dove si vogliano tradurre le fattispecie specifiche che, nel diritto anglosassone, si articolano in sottocategorie. Tali sottocategorie non si riconoscono nella dicotomia italiana tra errore-vizio ed errore-ostativo, ma prevedono l’unilateral mistake, errore unilaterale, ossia di una sola parte, che di per sé non rende il contratto in principio né nullo né annullabile, il mutual mistake, errore reciproco, generalmente in relazione ai termini contrattuali, e il common mistake, in cui entrambe le parti commettono sostanzialmente lo stesso errore di fatto.
            Nessuna difficoltà, invece, si incontra nella definizione e nella resa del mistake of law, errore di diritto, e del mistake of fact, errore di fatto.
            Un aspetto peculiare è rappresentato dall’eccezione del non est factum, un principio che non conosce uguali in italiano e traducibile solo ricorrendo alla locuzione francese nient son fait, applicabile laddove l’errore ha per oggetto la natura giuridica dell’atto. Si tratta, in buona sostanza, di una difesa con cui si invoca l’invalidità assoluta dell’atto in quanto non corrispondente a ciò che si intendeva sottoscrivere e a cui possono fare ricorso coloro che, senza colpa, sono incapaci di comprendere il significato o gli effetti dell’atto stesso, per svariate ragioni, tra cui l’età.
            Tra i vitiating factors si annovera anche la misrepresentation, un vizio assimilabile in qualche misura al dolo, ma che non sempre coincide pienamente con lo stesso e che dunque richiede qualche cautela in fase di traduzione. L’elemento caratterizzante del dolo, come risulta dall’art. 1439 cod. civ., è la presenza del raggiro, mentre la misrepresentation è di per sé null’altro che una dichiarazione inesatta (a false statement of fact) sulla base della quale l’altra parte può essere indotta a concludere il contratto pur se questa non rappresenta uno dei termini del contratto stesso.
            La misrepresentation può, infatti, essere innocent, o meglio wholly innocent, quando la dichiarazione inesatta è stata resa in buona fede, oppure negligent quando, ferma restando la buona fede, la dichiarazione è posta in essere per negligenza o imprudenza. In ultimo, l’ordinamento britannico riconosce la fraudolent misrepresentation, questa sì coincidente con il dolo per il suo carattere intrinseco di raggiro. In questo caso la dichiarazione è scientemente falsa e fatta al fine di sviare e spingere l’altra parte contraente a concludere il contratto (misrepresentation that goes to inducement) e sovente si accompagna alla definizione di material misrepresentation, con cui si sottolinea l’aspetto “determinante” del dolo.
            La duress può essere agevolmente tradotta con “violenza”, soprattutto ora che la common law ha ampliato l’ambito di applicazione di questo concetto dalla mera violenza fisica, o vis absoluta, per ricomprendere anche la coercition of the will, ossia la violenza psichica, o vis compulsiva, esercitata per ottenere dal minacciato il compimento di un atto a carattere negoziale.
            Di recente, nella dottrina della duress, si sta facendo largo il concetto di economic duress applicato ai contratti e definito come “an unlawful coercition to perform by threatening financial injury at the time when one cannot exercise free will”. In questo caso, la traduzione “violenza economica” potrebbe in qualche misura risultare fuorviante dove non venisse specificata la sua natura non già di tipo domestico, sotto forma di privazione o controllo teso a limitare l’accesso all’indipendenza economica di una persona, quanto piuttosto di una coercizione illecita che forza al compimento di un atto negoziale sotto la minaccia di un danno finanziario e non configurabile come una mera pressione commerciale (a questo proposito si veda ad esempio Atlas Express Ltd v Kafco (1989)).
            L’ultimo dei vitiating factors riconosciuto dalle corti di equity, ma non già da quelle di common law, è quello denominato undue influence. Non trovando corrispondenza nel novero dei vizi della volontà disciplinati dall'ordinamento italiano, la traduzione del termine pone qualche difficoltà. Alcuni hanno voluto assimilare l'undue influence al timore reverenziale, ma ciò potrebbe risultare concettualmente limitativo laddove si consideri che nel timore reverenziale non si configura alcuna azione intimidatrice tale da impedire alla parte cosiddetta più debole di esercitare liberamente la propria facoltà di giudizio. In secondo luogo, se l’assimilazione si fonda sul presupposto dell’esistenza di un rapporto fiduciario particolare o di una relazione di trust e confidence, va sottolineato che l’undue influence può essere fatta valere anche in mancanza di questi stessi presupposti, ossia non solo nei casi di “scuola” come gli accordi, ad esempio, tra genitori e figli, avvocato e cliente, guida spirituale e discepolo.
            Tra le altre proposte di traducenti ricordiamo “captazione” e quella che appare forse la più convincente per la sua aderenza al significato originale, ossia l’“indebita influenza” di Francesco De Franchis nel suo Dizionario Giuridico.
            Vista l’assenza di una definizione esaustiva dell’undue influence, anche in Gran Bretagna si è assistito a un dibattito sulla possibile ricatalogazione di questa fattispecie insieme a tutte le altre forme di coartazione, quali i contratti a condizione inique, in un unico principio generale strettamente correlato alla inequality of bargaining power, ossia l’ineguaglianza del potere contrattuale (si veda a questo proposito Lloyds Bank Ltd v. Bundy (1975, QB, 326)), dove l’attenzione sia volta al profilo del diverso potere contrattuale delle parti e a come eventuali disparità e squilibri si riflettano sulla formazione di un contratto che possa essere definito equo.
            Per concludere questa breve panoramica, giova ricordare come uno dei problemi della traduzione in genere e vieppiù di qualsiasi operazione che poggia sull’inglese giuridico, sia proprio quello di non limitarsi a tradurre le parole, quanto di trasmettere i concetti, giacché un’errata interpretazione o un’assimilazione impropria tra due istituti non perfettamente corrispondenti rischia di creare, quanto meno, problemi di comprensione e valutazione.

 

 

Bibliografia

  • De Franchis, F., Dizionario Giuridico, Giuffrè Editore, 1984.
  • Duxbury, R., Contract Law, Sweet & Maxwell, 2006.
  • Garner, B. A., Black’s Law Dictionary, West Publishing, 2001.
  • Torrente, A., Schlesinger, P., Manuale di diritto privato, Giuffrè Editore, 2004.
 
 
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