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Nell’ambito delle recentissime e già meno recenti od
oramai assodate tendenze di rispetto ambientale, sicuramente il riciclo e lo
smaltimento dei rifiuti giocano un ruolo fondamentale, sebbene nella vita di
tutti i giorni noi vi dedichiamo ben pochi pensieri. Talvolta, anzi molto spesso
per alcuni, tali pensieri si tramutano per lo più in invettive contro i gestori
che ci costringono a dedicare “secondi” preziosi della nostra vita a pensare al
bidone giusto per un corretto smaltimento (source separation) [1], a dovere
tenere più bidoni (dustbins) dentro o
fuori casa, a doverli portare nel punto di raccolta dedicato (dustbin pickup point) [2] per
agevolare il lavoro degli operatori ecologici, un tempo semplicemente
dustmen, oggi anche
waste collectors, garbage collectors,
trash collectors,
recycling techs, … nelle varie parti
del mondo anglofono [3].
Tralasciando però questa arte di “mugugnare” che caratterizza un po’ tutti i
cittadini nei
confronti di ogni innovazione, e tralasciando anche le
“pecche” che
nelle varie città può avere la
separate collection of waste, la ‘raccolta differenziata’, nonché
eventuali disgusti per i rifiuti che noi stessi produciamo, occorre indagare
quello che dal punto di vista tecnico, tecnologico e terminologico si presenta
come un vasto, anzi vastissimo, campo di applicazione.
Partiamo innanzitutto dalla definizione di “rifiuti”. Il Dizionario Sansoni
online Inglese-Italiano – Italiano-Inglese presente sul sito del Corriere della
Sera [4] alla voce “rifiuto” offre le
seguenti accezioni: (scarto) waste, refuse,
rubbish; al pl. (immondizia)
rubbish,
waste, (Br) refuse, (Am)
garbage,
trash. Nel cartaceo Dizionario di Inglese OUP – Vol. II, Italiano-Inglese [5], invece, al sottolemma “rifiuti” si
riporta: (scarti) waste; (immondizia) refuse (BE),
garbage (AE). Sebbene i due dizionari
qui confrontati riportino definizioni similari del termine fornendo
differenziazioni d’uso in American English
e British English, è tuttavia
necessario sottolineare che nelle terminologie tecniche che stanno oramai
divenendo di uso comune si parla per lo più di
separate collection of waste, sebbene esistano anche (in numero decrescente di
occorrenze in rete) separate collection of
garbage, separate collection of
rubbish, separate collection of refuse
e separate collection of trash.
Più semplicemente, si parla di waste collection, o anche di kerbside collection
o curbside collection,
rispettivamente nelle versioni di British
e American English, definizioni
che più specificamente alludono al posizionamento dei bidoni e alla conseguente
raccolta dei rifiuti sui marciapiedi.
Tornando un attimo alle nostre case, occorre riprendere la più sopra menzionata
dicitura source separation [6] che indica per l’appunto una
prima ‘separazione dei rifiuti’ da eseguirsi in casa, in ufficio oppure a
livello aziendale, insomma ‘alla sorgente’. Dovremo pertanto già noi decidere,
previe informazioni e letture in merito, se un determinato rifiuto sia
recyclable, ‘riciclabile’ appunto,
oppure non-recyclable [7], vale a dire ‘non
riciclabile’. In tal caso, dovremo conferire il rifiuto al bidone del
non-recyclable solid waste [8], il ‘secco non riciclabile’,
separandolo da paper, ‘carta’,
glass, vetro,
plastics, ‘plastica’, e
organic waste, i ‘rifiuti organici’
detti anche comunemente ‘umido’, o ancora dagli
yard and garden waste, i ‘risultati di sfalci e potature’. Nel caso volessimo decidere
di produrre meno rifiuti già a casa nostra invece, dovremmo compiere azioni di
precycling [9], vale a dire di ‘pre-riciclo’,
rifiutandoci di acquistare qualsiasi prodotto non riciclabile o che presenti
confezionamenti eccessivi e di non facile smaltimento. Siamo in questo caso
nell’ambito delle abitudini riassunte dallo slogan
refuse, reuse, recycle [10] o anche
reduce, reuse, recycle [11] e relativo acronimo (RRR):
‘rifiuta’ o ‘riduci’ gli acquisti di tutto ciò che non è facilmente o per nulla
riciclabile, ‘riusa’ ciò che è possibile riutilizzare diversamente, ‘ricicla’
tutto ciò che è possibile riciclare. Si apre in questo modo alle
recycling streams [12], una sorta di ‘correnti del riciclo’
dette anche waste streams, atte a
convogliare i rifiuti in specifici canali come in una sorta di flusso che, sulla
base della separazione dei vari tipi di rifiuti, porta al loro riutilizzo,
riciclo e distruzione (solitamente a mezzo inceneritore) oppure, quando il loro
recupero non risulta in alcun modo possibile, al loro convogliamento in
‘discarica’, landfill,
dumping ground,
waste disposal site. Questa sorta di ‘correnti dei rifiuti’ dovrebbe alla lunga portare
a una sempre più ridotta produzione di rifiuti residui.
A questo punto, siamo oramai lontani dalle nostre case dove si opera la
door-to-door waste collection, la
‘raccolta porta a porta dei rifiuti’, nonché dai più sopra citati
dustbin pickup points, o ancora dalle
recycling banks, le ‘isole ecologiche’
(siano esse traditional, vale a dire
‘di superficie’, oppure underground,
ossia ‘sotterranee’) che esistono in quelle località ove non si effettua la
raccolta porta a porta. Siamo infatti a livello non più di
waste collection, bensì di waste disposal [13], vale a dire ‘trasporto dei
rifiuti’ e loro ‘conferimento in discarica’,
transport, sending or delivery to landfill.
È solo a questo punto che inizia la fase del
waste treatment [14], il ‘trattamento dei rifiuti’
vero e proprio. Ed è proprio qui che entrano in gioco nuovi soggetti: si tratta
degli urban miner, termine composto
del riciclo che è a sua volta “riciclato” nelle sue parti costitutive. Pur
trattandosi effettivamente di una sorta di neologismo nel significato, questo
compound è formato da due termini già
esistenti nella lingua inglese, vale a dire l’aggettivo
urban e il sostantivo
miner. La novità dell’associazione
semantica dei due termini ben riflette la novità concettuale, ossia l’esistenza
di una nuova figura più o meno “professionale”, quanto meno alla sua comparsa:
si tratta infatti di quello che in italiano potremmo definire come il ‘minatore
urbano’, ossia chi si muove e opera nelle città impiegando tuttavia gli
strumenti classici del minatore e comportandosi di conseguenza. Sebbene esistano
alcune varianti di urban miner, e
sebbene i dizionari o tesauri ancora non includano questo termine, a livello di
Parlamento Europeo, l’urban
mining viene così definito:
«The term ‘urban mining’, as used in the Commission’s communication on the Raw Materials
Initiative (RMI) of February 2011, refers to the process of extracting useful
materials from urban waste and concerns one of the main sources of metals and
minerals for European industry. […]» [15]
Nei Paesi anglofoni, molti si definiscono
urban miner e l’attività di chi ricerca metalli tra i rifiuti, ma
soprattutto i metalli contenuti nelle apparecchiature elettriche ed
elettroniche, sta divenendo una vera e propria professione, non essendo soltanto
praticata a livello di ricerche illecite tra i rifiuti di cassonetti o bidoni.
Tanti sono coloro che recuperano da radio, televisioni, computer, telefonini e
altre apparecchiature quello che ormai viene definito il
green gold, l’‛oro verde’. In questo compound, anch’esso estremamente nuovo nel significato, ma “riciclato” nelle sue
componenti di base, l’aggettivo green si riferisce alla valenza ecologica del recupero di materiale che sarebbe
altamente inquinante se disperso nell’ambiente, mentre il sostantivo
gold indica il valore dei metalli
preziosi presenti all’interno delle apparecchiature più sopra citate [16]. Per questo motivo, si parla
di WEEE, acronimo di Waste Electrical (and) Electronic Equipment [17], vale a dire di rifiuti costituiti da apparecchiature e
dispositivi elettrici ed elettronici che se non correttamente smaltiti possono
avere conseguenze disastrose dal punto di vista dell’impatto ambientale o dei
rischi per la salute. Ma si parla anche di
e-waste, e-scraps [18] o
metal scraps, vale a dire di ‘rifiuti
o scarti elettronici’ o ‘materiali metallici di scarto’, proprio per indicare i
metalli contenuti in tali dispositivi. Questi
brown goods [19],
compound pressoché intraducibile che
sta ad indicare le piccole apparecchiature elettriche ed elettroniche presenti
nelle nostre case, diventano pertanto oggetto di ricerca e smercio non soltanto
da parte degli urban miner, ma anche
dei reclaimer. Questo termine deriva
dal verbo to reclaim che significa in
prima istanza ‘riportare qualcosa a una condizione utile e adatta per il suo
utilizzo’ (‘bonificare’ nel caso di un terreno o territorio), ma anche
‘recuperare sostanze utilizzabili dai rifiuti’ [20]. Il
sostantivo, che dovrebbe indicare per lo più
he/she who reclaims, si riferisce invece per traslato a quelle organizzazioni aziendali
che appunto si procurano i prodotti elettrici ed elettronici obsoleti, li
stoccano e li “sezionano” procurandosi tutto ciò che può essere loro utile per
una successiva rivendita a chi si occupa del riciclo di tali parti. Ed eccoci
giunti nel campo dell’e-cycling, vale a dire del riciclo delle componentistiche elettriche ed elettroniche.
Per comprendere la struttura di questo termine, a metà strada tra il
compound e il
blend, occorre ritornare al primo
significato del verbo to recycle. Il
Merriam-Webster Online Dictionary tra i vari significati cita come segue:
«To reuse or make (a substance) available
for reuse for biological activities through natural processes of biochemical
degradation or modification
<green plants
recycling the residue of forest fires>
<recycle
ADP back to ATP>. [21]»
Il Free Dictionary by Farlex online suggerisce
invece l’idea del rimettere in circolo, o meglio, in ciclo con la definizione «[t]o put or pass through a cycle again, as
for further treatment», pur non tralasciando l’idea del trarre materiali
utili da qualcosa dando al verbo il significato corrispondente a «[t]o extract useful materials from (garbage
or waste)» e neppure quella di «[t]o use again, especially to reprocess:
recycle aluminum cans; recycle old jokes. [22]» Pertanto, se
nel termine di recente conio la “e” sta ad indicare le componentistiche
elettriche ed elettroniche [23], l’altra parte del termine, cycle,
suggerisce l’idea del ‘ciclo’, o meglio, quella del ‘riciclo’ di cui appunto si
tratta.
Sempre nell’ambito delle parole del riciclo, abbiamo altri termini quali
up-cycling [24], coniato nel 2002 da William McDonough e Michael Braungart in
Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things,
che
significa ‘trasformare qualcosa che deve essere smaltito in qualcosa di valore
superiore e/o di migliore utilizzo’ [25]. In questa sorta di “riciclo verso l’alto” [26], i technical nutrients [27], che altro non sono che i prodotti e i materiali [28] che devono essere sottoposti a nuova trasformazione [29], vengono lavorati e utilizzati come se fossero componenti originari, con un doppio
risparmio in termini di denaro speso [30] e sostenibilità ambientale, in quanto nulla viene conferito in discarica. A contrastare
questo termine vi è però down-cycling che per lo più indica la tradizionale forma dell’azione di riciclo nel corso della quale
l’oggetto o il materiale lavorato naturalmente si degrada in ogni fase del suo
lifecycle, ‘ciclo
di vita’. Come invece più sopra si accennava a proposito delle
recycling o waste streams, l’obbiettivo primario di quella che viene
comunemente definita circular economy,
‘economia circolare’, o closed-loop recycling, ‘serie di cicli di rinnovamento’ del prodotto, sia
esso naturale, biological nutrient, o tecnologico, technical nutrient appunto, è quello di giungere a non conferire più nulla in discarica. Infatti, mentre i
biological nutrient possono tranquillamente ritornare alla terra, i
technical devono potere essere rilavorati e riutilizzati all’infinito in cicli di vita successivi.
Questa prima parte di analisi dei termini del riciclo termina qui, senza scendere in
particolari sulle varie forme di lavorazione e trasformazione di quanto viene a
costituire i nostri rifiuti, particolari che possono essere oggetto di ulteriori
analisi.
Come abbiamo visto, le parole, così come i rifiuti stessi, non vengono distrutte, ma rimesse
in gioco, in circolo, ossia riciclate. Insomma, «nulla si crea, nulla si
distrugge, tutto si trasforma.» [31]
A una cosa dobbiamo però prestare attenzione: a ciò che gettiamo nei nostri bidoni. I nostri
rifiuti rivelano tanto di noi, tanto che i
garbologists [32] studiano a campione tutto quanto un gruppo di persone getta nei rifiuti, nel tentativo di
ricostruirne le abitudini di vita. E ancora più attenti dobbiamo stare a non
gettare oggetti o documenti compromettenti o che possano rivelare informazioni
riservate. I dumpster divers sono in agguato [33]!
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