Gli esperti lo conoscono molto bene, ma per “i non
addetti ai lavori” è arduo comprendere termini quali
stakeholder o LF (Logical Framework).
Tutto il gergo comunemente usato in
lingua inglese dalle organizzazioni non governative (NGO - Non Governmental
Organization) viene definito con il termine
NGOish, attribuendovi così anche una accezione negativa (si ricorda che le parole terminanti in
-ish in inglese spesso definiscono un concetto non positivo: si pensi ad
esempio a childish che significa ‘infantile’, ma in senso
negativo), quasi dispregiativa, soprattutto perché si tratta di un gergo molto
“elitario” e incomprensibile a molti.
Anche una autorevole rivista quale
The Economist [1]
ha dedicato un intero articolo alla questione scatenando un fervido dibattito
tra i lettori [2].
Molto interessante è anche l’articolo pubblicato su
The Guardian da Trina Wallace [3], un’esperta
giornalista di linguaggio mediatico in campo non governativo, la quale asserisce
che è molto importante usare un linguaggio semplice per poter meglio arrivare ai
destinatari che non sono solo quelli che hanno veramente bisogno dei fondi, ma
soprattutto quelli che fanno le donazioni.
Ogni ONG ha una
mission da raggiungere, ovvero un
compito ben preciso. Alcune ONG hanno una
mission umanitaria, come Action Aid [4] o Save the
Children [5] che si occupano di adozioni a
distanza e miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi in via di sviluppo;
altre hanno una mission ambientale,
come ad esempio il WWF [6], altre
ancora di tipo culturale, come ad esempio il FAI [7], per la
tutela dei beni artistici italiani, e così via.
Tutte queste organizzazioni, al momento della
presentazione di un progetto specifico e mirato al raggiungimento della loro
mission, spesso lavorano su un
Logical Framework (LF), un ‘quadro logico’ che permette di
identificare e analizzare quei problemi che potrebbero bloccare il progetto, e
quindi organizzare un piano completo di azioni volto al loro superamento.
All’interno di questo quadro vengono individuati gli
stakeholder: Questo termine, che non trova un vero e proprio singolo corrispondente in italiano,
significa “tutti coloro che, direttamente o indirettamente, sono interessati
dall’intervento”. Tra questi si distinguono gli
stakeholder primari, ovvero coloro che
sono raggiunti direttamente dal progetto, e gli
stakeholder secondari che sono coinvolti indirettamente dagli effetti del progetto
stesso. Ci sono anche i cosiddetti stakeholder chiave: tutti coloro che possono influenzare positivamente un progetto e che
devono essere presi in considerazione per evitare che il progetto stesso
fallisca.
Il progetto viene monitorato dal PCM (Project
Cycle Management): il ciclo del
progetto, composto da cinque fasi [8], è l’insieme delle azioni intese a
realizzare attività collegate a un progetto e descrive la sequenza circolare
composta dalle fasi che lo configurano.
Sempre all’interno del progetto troviamo gli OVI (Objective Verifiable Indicators): indicatori oggettivamente
verificabili che sono evidenziati all’interno del LF per attestare la
fattibilità o meno del progetto.
Ogni progetto punta all’empowerment, termine diffuso anche sulla
nostra stampa, che potrebbe essere tradotto con ‘potenziamento’, ossia il
miglioramento di una determinata situazione, e non dovrebbe mai perdere la
relevance, ossia la ‘pertinenza’ nei contesti
d’azione, e l’effectiveness ovvero
l’‘efficacia’ delle azioni condotte.
Il progetto viene valutato sempre secondo l’assessment, il processo di identificazione e approfondimento di un problema per pianificare una
serie di azioni che possano contribuire alla sua risoluzione, e deve sempre
tener conto della casuality che esamina i fattori e gli eventi che hanno condizionato direttamente i
risultati ottenuti.
Ciascun progetto ha una sua
capacity-building [9], termine che
non trova un corrispettivo in italiano, ma che indica la capacità di attuare, di
fare, e che determina quindi l’impatto che avrà sui beneficiari diretti e
indiretti.
Spesso le ONG usano l’advocacy, ovvero si fanno promotrici
e patrocinano una causa, generando così la consapevolezza in coloro che vogliono
partecipare alla raccolta fondi correlata a quel determinato progetto.
A volte riescono a fare
lobby, ovvero pressione sui governi o sui gruppi di potere. Basti pensare a Greenpeace [10] e alla sua
recente vittoria contro le baleniere giapponesi. Non solo si è agito sul piano
politico e sociale, pubblicizzando campagne di sensibilizzazione e raccogliendo
firme, ma si è attivata concretamente un’azione di sabotaggio nei confronti
delle baleniere giapponesi, impedendo loro di uccidere altri poveri animali.
Entra in scena quindi il cosiddetto
fund raising, ovvero la ‘raccolta fondi’, vitale per la riuscita di un progetto, che
viene attuato sia attraverso l’invio di messaggi di testo sia mediante i
fund raiser, spesso giovani volontari
che, face-to-face o telefonicamente, cercano di convincere le persone a fare
donazioni.
La
transparency (‘trasparenza’) è fondamentale per ottenere i fondi e prevede
spesso una pubblicazione periodica dei risultati raggiunti in quel determinato
ambito per fare in modo che i sostenitori continuino a contribuire alla causa.
Tutto il mondo del non-profit viene racchiuso in un
termine ripreso dall’inglese e italianizzato in
third sector (‘terzo settore’). Con questo termine, usato per la prima volta in Italia
negli anni Ottanta, si indicano associazioni di volontariato, cooperative
sociali, organizzazioni non governative che accomunano soggetti privati operanti
per il bene collettivo. Viene denominato terzo settore in quanto diverso dallo
Stato e dal Mercato.
Altro termine molto usato nelle ONG è il
gender mainstreaming, un principio che consiste
nell’adeguata considerazione delle differenze esistenti tra le situazioni di
vita, le esigenze e gli interessi rispettivamente degli uomini e delle donne, in
tutti i programmi e gli interventi economici e sociali.
Il termine
gender indica l’insieme di ruoli, aspettative e convenzioni costruiti
intorno all’identità maschile e femminile. Molto interessante a questo proposito
il rapporto di ricerca di Action Aid, “La dimensione di genere nella
cooperazione allo sviluppo” [11], nel quale a partire dall’indice si
possono trovare vari termini citati in questo articolo tra cui empowerment
e accountability.
Alla luce dei termini qui esaminati, si può
comprendere perché il mondo delle ONG abbia così tanto bisogno di terminologie
specifiche: permette di poter descrivere in poche parole concetti altrimenti
troppo lunghi da spiegare, ma si capisce anche quanto possa essere difficile per
i non addetti ai lavori comprendere questo complicato linguaggio.
Navigando in Internet si trovano molti dibattiti tra
chi sostiene la necessità del gergo e chi invece ne condanna la difficoltà di
comprensione.
Certamente nei prossimi anni si assisterà a
un’ulteriore evoluzione di questo linguaggio settoriale e sarà allora
interessante vedere quante persone lo comprenderanno e quante lo troveranno
ancora difficile. La diffusione di Internet potrà forse portare a una maggiore
circolazione di questi termini e conseguentemente a una maggiore familiarità da
parte degli utenti.
Bibliografia
Distante, A.,
English Throughout the International
Relations, Security and Defence Framework, Europa 2010, 2007.
Wallace, T., “Here's to a jargon-free
voluntary sector in 2011”, The Guardian,
31st January 2011.
“The jargon of aid: Anywhere here speak NGOish?”,
The Economist, 27th January
2011.
“Educazione alla Pace: Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Politiche
Europee”, dispense Master edizione 2006.
“Inglese per le Relazioni
Internazionali, la Sicurezza e la Difesa”, dispense Corso edizione 2011.
Sitografia
http://www.actionaid.it/
http://www.bassac.org.uk/
http://www.economist.com/
http://www.en.wikipedia.org/
http://www.fondoambiente.it/
http://www.greenpeace.it/
http://www.guardian.co.uk/
http://www.marketingsociale.net/
http://www.oxfam.org/
http://www.savethechildren.it/
http://www.utlcairo.org/
http://www.volint.it/
http://www.wwf.it/
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